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Voltar.

25 Set

Il ritorno è sempre un evento abbastanza traumatico, tanto in senso negativo quanto positivo.

Quando mi sono svegliata nel grande e comodo letto in quella che è stata la mia cameretta fin dalla prima infanzia ho avuto il sospetto di aver sognato i tre mesi trascorsi a Rio de Janeiro, in favela.

Il profumo del caffè inebriava già la casa, mia madre, come sempre, da brava alchimista, aveva provveduto a “metterlo su”. Ho fatto la mia solita colazione con la pozione nera, rigorosamente senza zucchero, e un paio di biscotti. Ho ringraziato la mia cagnolina per avermi lavato i piedi, con immenso affetto e meticolosità, con la sua velocissima lingua e mi sono preparata per fare una passeggiata con lei.

L’aria di un qualunque settembre romano, che riconoscerei anche se vivessi per trenta anni a milioni di chilometri di distanza, se qualcuno riuscisse ad imbottigliarla per farmela annusare.

Rumori di sottofondo qualunque, di macchine, di nonne e nipoti al parco e di colleghi d’ufficio in pausa caffè.

Sporcizia qualunque ai bordi delle strade, qualche cartaccia gettata qua e là, che comunque genera in me il solito disappunto.

Possibile che ieri io stessi dall’altro capo del mondo?

Possibile che io abbia respirato ogni giorno per tre mesi il fetido puzzo di rifiuti in decomposizione? Possibile che abitassi nella stessa città che ospiterà eventi di portata mondiale ma che dimentica di riconoscere la dignità di un suo quartiere, di mille suoi quartieri, al punto da lasciarvi scorrere a cielo aperto fiumi e cascate di piscio e feci? Possibile che le mie orecchie siano state bombardate agli orari più impensabili da qualsiasi genere di rumore molesto? Macchine, moto, televisioni a tutto volume, la musica assordante dagli appartamenti, dalle palestre, dalla strada, gli schiamazzi, le risate, i predicatori delle chiese evangeliche, i bambini, il camion dei rifiuti, gli autobus..

Possibile che vivessi in una meravigliosa città di mare, dove il sole in spiaggia però si prende al contrario, perché tramonta dietro alle colline verdi di foresta tropicale? Possibile che fosse una città vegliata costantemente da una immensa statua del Cristo? Possibile che bevessi acqua da un cocco piuttosto che da una bottiglietta di plastica? Possibile che io abbia ballato il samba in una delle più importanti scuole di samba del Brasile? La joia, la vita che scorre lenta ed ottimista, il sole caldo anche d’inverno, la musica che quando non aggredisce coccola, la musicalità di un idioma..

E’ più che possibile, è vero. Lo confermano le mie valigie e le fitas do Bonfim* che pendono da una tasca dello zaino.

Eu voltei, sono tornata.

Le fitas do Bonfim ad Arraial d'Ajuda (Bahia), subito dietro la chiesa di Nossa Senhora d'Ajuda, edificata nel 1549 dai portoghesi.

Le fitas do Bonfim ad Arraial d’Ajuda (Bahia), subito dietro la chiesa di Nossa Senhora d’Ajuda, edificata nel 1549 dai portoghesi.

*La fita do bonfim è tipica della Bahia. Si tratta di un nastrino colorato, della lunghezza di 47 centimetri che, come spesso accade in Brasile, è legato tanto alla tradizione cattolica quanto a quella dello spiritualismo, caratteristica delle radici africane della Bahia. La fita viene indossata al polso ed allacciata con tre nodi, custodi di altrettanti desideri. Questi ultimi potranno esaudirsi quando i nodi si saranno sciolti.